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Fazzoletti in Piazza San Lorenzo

 

 

Piccoli Imputati

Curiosando tra antiche sentenze genovesi

 

FAZZOLETTI IN PIAZZA SAN LORENZO

 

(Sentenza del 16 luglio 1863)

 

PROTAGONISTI

 

Luigi P. di anni 11, nato e dimorante a Genova vico Del Duca, lavorante materassaio

Angelo P., di anni 14, dimorante a Genova negli Orti di Sant’Andrea, presso certa Maria affitta letti, facchino

Domenico C., di anni 14, dimorante a Genova, fabbro ferraio

Giulia Sciarra, venditrice ambulante

 

 

LUOGO

Piazza San Lorenzo Genova

 

REATO

Furto

 

DATA

22 aprile 1863

 

 

         La sentenza in oggetto si riferisce ad un fatto avvenuto a Genova in Piazza San Lorenzo nel pomeriggio-sera del 22 aprile 1863.

         Protagonisti dell’episodio sono da una parte l’undicenne Luigi P. ed i quattordicenni Angelo P. e Domenico C. (il primo lavorante materassaio, il secondo facchino, il terzo fabbro ferraio), e dall’altra la Signora Giulia Sciarra, titolare di un banchetto di mercanzia in Piazza San Lorenzo.

         Per comprendere la portata del fatto si ritiene opportuno riportare il capo di imputazione nei confronti dei tre giovani; essi sono stati imputati di “furto semplice di trenta fazzoletti di seta del complessivo valore di lire cinquanta, commesso nel pomeriggio del 22 aprile 1863 in Genova a pregiudizio di Giulia Sciarra collo averglieli destramente sottratti, mentre intenta a vendere alcune mercerie aveva sospeso di levare il banco che tiene nell’angolo di Piazza San Lorenzo”.

         La Sezione Correzionale del Tribunale di Genova riteneva provata l’imputazione a carico del P. specialmente tostoche egli sarebbe stato visto manprendere ed asportare la scatola contenente i fazzoletti non ostante la negativa da lui data d’essersi trovato in detta sera sulla Piazza San Lorenzo; che dovrebbesi pure tenere per provata tale reità a carico delli P. e C., sia perché essi sarebbero convinti di mendacio avendo negato di conoscere il P., e di non essersi trovati nella sera suindicata nella Piazza di San Lorenzo, quando invece sarebbero stati visti nella sera del furto unitamente al suddetto aggirarsi intorno al banchetto della Piazza a farsi collo stesso dei segni; sarebbe pure risultato come siano detti tre individui soliti ad essere sempre insieme e siano stati veduti non solo nella sera del commesso furto ma eziandio nelle sere precedenti aggirarsi intorno ai banchetti sulla mentovata piazza”.

         Il Tribunale considerava inoltre che “P. Angelo e C. Domenico sarebbero già stati condannati a pene correzionali, che il C. ed il P. sarebbero minori degli anni 14 ma avrebbero agito con discernimento, che l’Angelo P. sarebbe maggiore degli anni 14 e minore dei diciotto”.

Su tali presupposti così statuiva il Tribunale di Genova in data 10 luglio 1863: Dichiara P. Angelo, P. Luigi e C. Domenico convinti del reato loro ascritto commesso dal Poggi in età minore degli anni 18 e maggiore dei 14 e da entrambi in istato di recidiva e dal Parodi in età minore dei 14 anni agendo con discernimento. E letti gli artt. 622, 89, 90 e 123 del Codice Penale condanna Angelo P. alla pena di un anno di carcere, C. Domenico a sei mesi di custodia, e P. Luigi a tre mesi d’egual pena, indennità e spese. Dichiara confiscato il denaro sequestrato.

         Dagli elementi contenuti nella sentenza, si desume che i tre giovani autori del reato dovevano essere molto “vivaci” (per usare chiaramente un eufemismo); malgrado la loro giovane età, ben due di essi – Angelo P. e Domenico C. - avevano già precedenti penali, tanto che entrambi sono stati giudicati in istato di recidiva e che uno in particolare (Domenico C.) risultava già detenuto per altro reato.

         Anche Luigi P. – il più giovane della compagnia, motivo per il quale egli subiva una condanna più lieve - doveva “promettere bene” quanto a carriera criminale.

         In effetti, il fatto delittuoso appare qualcosa di più di una semplice “ragazzata” improvvisata: la sentenza specifica infatti che i tre erano già stati visti sul posto nelle sere precedenti alla commissione dei delitti; evidentemente, essi stavano già studiando il colpo nei dettagli, alla stregua dei più consumati delinquenti.

         La particolare “scaltrezza” (ancora una volta si usa un evidente eufemismo) degli imputati emerge anche dalla condotta da loro tenuta nel processo: tutti quanti infatti avevano negato di essere presenti la sera del delitto in Piazza San Lorenzo; Domenico C. e Angelo P. avevano inoltre negato di conoscere Luigi P., vera “mente” del gruppetto. Proprio in ragione di ciò il Tribunale aveva contestato nei loro confronti anche il “mendacio”.

         La sentenza è inoltre interessante perché traccia un suggestivo quadretto della Piazza San Lorenzo di allora, nella quale –più precisamente: all’angolo di essa - la Signora Giulia Sciarra teneva e gestiva un banchetto di “mercerie”: oltre ai fazzoletti di seta oggetto del furto, si può ritenere che essa vendesse tessuti ed altro materiale simile a quello che oggi potremmo trovare nei negozi denominati, appunto, mercerie.

         Si può supporre che nella piazza San Lorenzo esistessero anche altri simili banchetti.

 

 

 

Fonte:

Archivio di Stato di Genova, Sentenze del Tribunale Penale di Genova, 4

 

Piccoli Imputati

 

Gallette e candele

 

 

Piccoli Imputati

Curiosando tra antiche sentenze genovesi

 

GALLETTE E CANDELE

 

(Sentenza del 27 febbraio 1863)

 

 

PROTAGONISTI

Francesco R., di anni 12, nato a San Cipriano, dimorante a Genova in Via Santa Sabina

Agostino Firpo, pristinaio

Giovanni Luciani, proprietario del Bazar del Popolo in Via Giulia (attuale Via XX Settembre)

 

LUOGHI

Genova – Bazar del Popolo in Via Giulia (attuale Via XX Settembre)

 

REATO

Furto

 

DATE

22 agosto 1862 – 9 dicembre 1862

 

 

         La vicenda riguarda un furto commesso da un ragazzo di appena dodici anni, di nome Francesco R.; vale la pena riportare esattamente i capi di imputazione mossi dalla Sezione Correzionale del Tribunale del Circondario di Genova; “furto di venticinque gallette del peritato valore di lire due commesso nel mattino del 22 agosto 1862 in questa città a danno del pristinaio Agostino Firpo”; “furto d’un pacco [di] candele steariche del peritato valore di lire una commesso in questa città nella sera del 9 dicembre 1862 di Luciani Giovanni proprietario del Bazar del Popolo posto in via Giulia”.

         Dalle dichiarazioni dello stesso imputato rese nel procedimento, dalla lettura dei verbali e dalle deposizioni dei testi risultava provato il reato ascritto al Francesco R.

         Il Tribunale riteneva inoltre accertato il fatto che Francesco R., pur minore degli anni quattordici, avesse agito con discernimento; conseguentemente, con la sentenza datata 27 febbraio 1863, statuiva quanto segue: “Dichiara R. Francesco convinto dei reati a lui ascritti commessi in età minore degli anni quattordici agendo con discernimento” […] “condanna a sei mesi di custodia indennità e spese. Manda restituirsi al signor Luciani le candele sequestrate

         Dagli elementi a disposizione non è possibile risalire alle motivazioni che avrebbero potuto spingere Francesco R. alla commissione del duplice furto.

         Il valore non eccelso della merce rubata e la tenera età del ragazzo potrebbero far ritenere configurabile una semplice “ragazzata”; peraltro la reiterazione del reato di furto, a distanza di quasi quattro mesi, evidenzia comunque una certa propensione a delinquere da parte del reo.

         Nella fattispecie colpisce la celerità e la severità con cui si è mossa la macchina della giustizia, nonostante il ragazzo come detto avesse solo dodici anni; come emerge dalla sentenza, infatti, egli risultava detenuto dall’11 dicembre 1862, quindi due giorni dopo la commissione del secondo furto, era stato rimesso davanti al Tribunale con ordinanza del Giudice Istruttore del 29 gennaio 1863 e, come si è appena visto, era stato condannato il mese successivo.

         D’altronde il Codice Penale Sardo a quel tempo vigente prevedeva l’imputabilità anche nei riguardi dei soggetti infraquattordicenni, purché fosse provato il discernimento (come è appunto stato provato nella fattispecie); per fare un parallelo con l’ordinamento giuridico attuale, si consideri che l’art. 97 del Codice Penale attualmente vigente dispone che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.

         Allora, evidentemente, i giovani sotto i quattordici anni – che oggi chiameremmo ragazzini - erano considerati già maturi e responsabili; si consideri del resto che molti di loro a quell’età erano già avviati ad un’attività lavorativa: nella fattispecie, peraltro, a differenza di altri casi, non è specificata la “professione” del ragazzo (forse Francesco R. si è messo a rubare perché, senza lavoro e senza guadagno, versava in una situazione di povertà? potrebbe essere un’ipotesi suggestiva, ma nulla più, a proposito del movente, che come detto in precedenza risulta sconosciuto).

 

 

 

Fonte:

Archivio di Stato di Genova, Sentenze del Tribunale Penale di Genova, 2

 

 

Piccoli Imputati

 

Mezzo chilo di zucchero!

 

Piccoli Imputat

Curiosando tra antiche sentenze genovesi

 

 

 

MEZZO CHILO DI ZUCCHERO!

(Sentenza dell’8 luglio 1863)

PROTAGONISTA

Gio’ Batta S., di anni 13, nato e dimorante a Genova in via Servi, falegname

 

LUOGO

Genova

 

REATO

Furto

 

DATA

2 giugno 1863

 

 

 

         Il protagonista dell’episodio è un ragazzo di appena tredici anni, di nome Gio’ Batta S., il quale è stato imputato di furto per avere intorno alle dieci antimeridiane del 2 giugno 1863 nella calata di questo porto denominata calata Cattaneo rubato mezzo chilogrammo di zuccaro peritato valore di centesimi cinquanta quattro, togliendolo da una fra le diverse botti piene di detta marca che ivi si trovavano esposte alla fede pubblica”.

         Dopo un breve periodo di detenzione, il giovane veniva ammesso a libertà provvisoria senza cauzione e rimesso a giudizio davanti al Tribunale del Circondario di Genova.

         Dalle risultanze di causa emergeva chenel giorno 2 dello scorso giugno venisse arrestato il suddetto sulla calata del Porto ritentore di quantità di zuccaro che egli stesso ammetteva di aver raccolto nel suolo ove instavano le casse esposte alla fede pubblica”.

         La Sezione Correzionale del Tribunale del Circondario di Genova riteneva che l’imputato avesse agito con discernimento nonostante l’età inferiore a quattordici anni dell’imputato; conseguentemente, con sentenza resa l’8 luglio 1863, statuiva quanto segue: dichiara Gio’ Batta S. convinto del reato a lui ascritto commesso in età minore degli anni quattordici agendo con discernimento e letti gli artt. 624 e 89 del Codice Penale lo condanna alla pena di un mese di custodia, indennità e spese. Manda restituirsi a chi di ragione lo zuccaro sequestrato”.

         Colpisce la severità e la celerità con la quale si era mossa la macchina della giustizia per quella che oggi si potrebbe considerare poco più di una semplice “ragazzata”: malgrado infatti la giovanissima età e la obiettiva non eccezionale gravità del fatto, il tredicenne Gio’ Batta S. era stato arrestato immediatamente dopo la commissione del reato e condannato già il mese successivo.

         In effetti, l’ordinamento giuridico, e di riflesso la società, dell’epoca considerava i giovani infraquattordicenni, almeno in linea generale, persone già mature e responsabili: oltre ad essere soggetti a responsabilità penale, essi molto spesso a quell’età esercitavano già una professione, con tutte le conseguenze del caso anche dal punto di vista strettamente giuridico; un esempio in tal senso è dato proprio dallo stesso Gio’ Batta S., qualificato come falegname in sede di presentazione dell’imputato nella sentenza in oggetto.

         Risulta quindi evidente la differenza con la legislazione odierna, che fissa a quattordici anni l’età minima ai fini dell’imputabilità ed a quindici anni l’età minima per lavorare.

         Particolare curiosità ed interesse desta anche il fatto in sé, in quanto la sentenza ricostruisce molto efficacemente un quadretto del porto di Genova dell’epoca: dalla descrizione dei fatti sembra quasi di poter scorgere questo ragazzino aggirarsi fra i magazzini del porto pieni di botti e “casse” (in questi termini si esprimeva il Tribunale di Genova) contenenti zucchero e probabilmente molta altra merce.

 

 

Fonte:

Archivio di Stato di Genova, Sentenze del Tribunale Penale di Genova, 4

 

 

 

Piccoli Imputati

Zucchero, limoni e cappelli di paglia di Firenze

 

Piccoli Imputat 

Curiosando tra antiche sentenze genovesi

 

 

ZUCCHERO, LIMONI E CAPPELLI DI PAGLIA DI FIRENZE

 

(Sentenza del 21 agosto1862)

 

 

PROTAGONISTI

 

Vittorio V., di anni 14, nato e dimorante in Genova al Lagaccio, casa Bianchetti, garzone parrucchiere

 

Giuseppe N., di anni 18, nato e dimorante in Genova sul piano di Sant’Andrea, lavorante parrucchiere

 

Giuseppe Cavagna, titolare di magazzino

Nicola Cenco, proprietario di magazzino

 

LUOGO

Genova, palazzo Zerbino

 

REATO

Furto

 

DATA

Giugno 1862

 

         La vicenda in oggetto vede protagonisti due ragazzi di nome Vittorio V. e Giuseppe N., rispettivamente di 14 e 18 anni, entrambi giovani parrucchieri (più esattamente, il primo era qualificato come “garzone parrucchiere” ed il secondo come “lavorante parrucchiere”).

         I capi di accusa mossi nei loro confronti erano i seguenti: “ Di furto di un chilogrammo e mezzo di zucchero e cento due limoni del complessivo valore di lire cinque e centesimi sedici, commesso addì 29 giugno e nei giorni precedenti a pregiudizio ed in un magazzino condotto da Giuseppe Lavagna situato in questa città nel palazzo Zerbini, in via medesima. Reato previsto dall’art. 622 del Codice Penale. 2° Di furto di due cappelli di paglia di Firenze, del valore ciascuno di lire tre, commesso sui primi di giugno del corrente anno a pregiudizio di Nicola Cuneo nel magazzino situato nella località di cui sopra. Reato previsto dall’art. 622 del Codice Penale

         Secondo la sentenza pronunciata dalla Sezione Correzionale del Tribunale del Circondario di Genova, le risultanze di causa avrebbero confermato la sussistenza dei fatti contestati ai due imputati, essendo stato “accertato come nei giorni antecedenti al 29 scorso giugno V. Vittorio e N. Giuseppe sarebbersi introdotti nei magazzini di Nicola Cuneo e di Giuseppe Cavagna ed avrebbero rubato al primo due cappelli di paglia del valore di lire sei ed al secondo quantità di limoni e di zucchero del valore di lire quattro e centesimi novantasei”.

         Il Tribunale, valutata l’età degli imputati compresa tra 14 e 18 anni e lo stato di contumacia di Vittorio V. (Giuseppe N. ed il suo difensore erano stati invece sentiti nel corso del procedimento), in data 21 agosto 1862 dichiarava entrambi gli imputati responsabili del reato loro ascritto e li condannava alla pena di un mese di carcere ciascuno con pagamento di indennità e spese; inoltre disponeva la restituzione alla parte lesa del cappello sequestrato.

         A prima vista, usando il linguaggio di oggi, il fatto potrebbe essere qualificato come una semplice “ragazzata”, considerato il valore della merce sottratta, che appare oggettivamente modesto; non si può peraltro escludere la volontà una finalità più strettamente patrimoniale: essi potrebbero essersi introdotti nel magazzino allo scopo di “raccattare” qualcosa, magari con la speranza di sottrarsi almeno in parte alla condizione di povertà nella quale forse si trovavano.

         Tale ultima ipotesi sarebbe suffragata dall’attività esercitata in particolare dal più giovane dei due, Vittorio V.: egli, come detto in precedenza, a soli quattordici anni di età si trovava già a svolgere la professione di parrucchiere, sia pure come “garzone”; non si può escludere che il precoce inserimento lavorativo sia stato dettato da una precaria situazione economica, tale da non permettergli la prosecuzione degli studi (come succedeva frequentemente anche per altri ragazzi all’epoca dei fatti).

         La descrizione dei fatti contenuta nella sentenza non consente peraltro di verificare con certezza le motivazioni che hanno spinto i due ragazzi a compiere il comunque censurabile gesto.

 

 

 

Fonte:

Archivio di Stato di Genova, Sentenze del Tribunale Penale di Genova, 1

 

 

Piccoli Imputati

 

 

 

 

Una moneta per papà

 

 

 

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Curiosando tra antiche sentenze genovesi

 

 

 

UNA MONETA PER PAPA’

(Sentenza del 23 luglio 1862)

 

PROTAGONISTI

 

Pietro C.

10 anni

nato ed abitante in Genova in via Perera n. 27

lavorante calzolaio

 

Lodovico Firpo

calzolaio

 

LUOGO

Genova, Bottega del calzolaio sita in Vico Dritto di Ponticello

 

REATO

Furto qualificato per la persona

 

DATA

I primi del mese di febbraio 1862

 

 

         Il protagonista della vicenda è Pietro C., un ragazzino di soli dieci anni che abitava a Genova in via Perera e che lavorava come apprendista nella bottega del calzolaio Lodovico Firpo, sita a Genova in Vico Dritto di Ponticello.

         Egli, in uno dei primi giorni del mese di febbraio 1862, aveva pensato bene di sottrarre una mezza Sarzana d’oro (si tratta di una moneta, come si specifica in un passaggio della sentenza) dal cassettino del banco della bottega, presso la quale egli poteva accedere liberamente in ragione della sua attività.

         Nei confronti di Pietro C. veniva aperto un procedimento dinanzi alla Sezione Correzionale del Tribunale del Circondario di Genova, con l’imputazione di furto qualificato per la persona.

         Nel corso del processo lo stesso inquisito ammetteva di avere prelevato la moneta d’oro e di averla consegnata a suo padre, “dicendogli che quella moneta l’aveva trovata”: in astratto, quindi, potevano sussistere i presupposti per una condanna.

         Peraltro, “dall’estratto di nascita di detto C.” risultava che quest’ultimo era nato il 10 settembre 1851: al momento del fatto contestato, quindi, egli aveva solo dieci anni e qualche mese.

         Il Tribunale, considerata la sua giovane età e rilevata l’assenza della prova del discernimento (come si afferma nella sentenza, l’art. 88 del Codice Penale allora vigente disponeva che “il minore degli anni quattordici, quando abbia agito senza discernimento, non soggiacerà a pena”), in data 23 luglio 1862 disponeva che “il Pietro Conti non può andare soggetto a pena visto l’art. 88 del cod. penale letto all’udienza. Ordina che lo stesso sia consegnato ai suoi parenti, facendo ad essi prestare sottomissione di bene educarlo e di invigilare alla sua condotta sotto pena dei danni, delegando a tal fine il Signor Giudice del Sestiere di Portoria. Manda infine che detto C. sia posto in libertà”.

         Il giovane Pietro C. – che dunque, come diremmo oggi, se l’era cavata subendo solo una “ramanzina” dal giudice- si era dimostrato nella vicenda piuttosto ingenuo e sprovveduto; in effetti, sembra quasi che egli fosse mosso più dalla volontà di regalare una moneta probabilmente preziosa al padre magari per renderlo felice che da quella di danneggiare il suo datore di lavoro. Nella fattispecie sembra quindi configurabile, tutt’al più, una stupida “ragazzata”, considerata l’età dell’autore del gesto.

         Analizzando la vicenda, il dato che semmai desta maggiore impressione è costituito dal fatto che il ragazzino fosse a soli dieci anni di età già impiegato presso la bottega del calzolaio, sia pure come apprendista; a quell’età, infatti, egli avrebbe dovuto frequentare la scuola anziché svolgere l’attività di “lavorante calzolaio” (così viene presentato nella sentenza il giovane Pietro C.), almeno alla luce dell’odierna sensibilità e dell’attuale legislazione: l’art. 5 del Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 345, che ha modificato l’art. 3 della Legge 17 ottobre 1967 n. 977, dispone infatti che “l'età minima per l'ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti”.

         All’epoca del fatto, evidentemente, i ragazzini anche di età inferiore a quattordici anni dovevano essere ritenuti già maturi dalla società in generale e dall’ordinamento giuridico in particolare: una ulteriore dimostrazione in tal senso proviene dall’art. 88 del Codice Penale allora vigente, precedentemente richiamato, il quale come si è visto prevedeva l’imputabilità anche per i soggetti infraquattordicenni, purché fosse provato il discernimento; facendo ancora una volta un confronto con i nostri tempi, si consideri che il codice penale vigente prevede la loro assoluta non imputabilità, disponendo all’art. 97 che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni”.

         L’esame della vicenda, in sé piuttosto banale, offre quindi uno squarcio sulla condizione dei ragazzi (oggi diremmo: ragazzini) di metà Ottocento, i quali già in giovanissima età potevano essere mandati presso botteghe o laboratori ad apprendere un mestiere (il caso in oggetto non doveva essere così raro o isolato).

         Fermo restando naturalmente il disvalore dell’azione compiuta, il giovane Pietro C. - per la sua giovanissima età, per la sua situazione lavorativa e per le motivazioni che lo hanno indotto a compiere il gesto - finisce così per suscitare agli occhi di un osservatore dei nostri giorni un sentimento più di tenerezza che di disapprovazione.

 

 

 

Fonte:

Archivio di Stato di Genova, Sentenze del Tribunale Penale di Genova, 1

 

 

 

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