LA TRAGICA MORTE DI DON PAOLO CANESSA
Il parroco della chiesa genovese di San Siro di Struppa protagonista di un episodio di cronaca nera nel 1908
Con una breve deviazione dal percorso dell’Acquedotto Storico di Genova all’altezza di Struppa si può visitare la bellissima e suggestiva Abbazia di San Siro, all’interno della quale una lapide con un busto rievoca la terribile sorte toccata a Don Paolo Canessa; come si può leggere, quest’ultimo, definito “integerrimo e zelantissimo”, era stato ucciso il 30 settembre 1908 nel pieno centro di Genova in Piazza Umberto I (l’odierna Piazza Matteotti, su cui affaccia Palazzo Ducale) da uno sconosciuto.
Un’altra lapide posta all’esterno, presso quello che attualmente è un parcheggio, ricorda la figura dell’Arciprete Don Paolo Canessa e in particolare la sua meritoria opera di edificazione dell’asilo adiacente alla chiesa, dove si educava “l’infanzia all’amor di Dio e del prossimo”. Anche in questo caso è contenuto un espresso richiamo alla sua tragica e, dal punto di vista strettamente evangelico, eroica fine: “vittima innocente di mortale ferita, di gran cuore perdonò perché del benemerito sacerdote fosse ai posteri raccomandata la memoria”.
La tomba del sacerdote si trova nel cimitero di San Siro di Struppa, vicinissimo al percorso dell’acquedotto: qui viene semplicemente ricordato come “Arciprete dal 23 febbraio 1896 al 30 settembre 1908 strappato in quel giorno alla terra”. Don Paolo è sepolto accanto al fratello Natale, morto il 16 ottobre 1905.
La vicenda che lo ha visto suo malgrado protagonista è raccontata, con molti dettagli, in un articolo pubblicato nell’edizione de “Il Secolo XIX” del 1° ottobre 1908.
Già il titolo esprime e riassume molto bene la tragicità della vicenda: “GIORNATA DI SANGUE. Il delitto d’un maestro pazzo. Il parroco di San Siro di Struppa ucciso con un colpo di rivoltella”.
Ma è leggendo integralmente l’articolo che si percepisce l’entità dell’“orribile dramma” (parole presenti nella prima riga) che si era consumato quella mattina di fine settembre nel cuore di Genova.
Era infatti appena terminata l’esibizione di una banda in Piazza Umberto I quando, poco dopo le ore 11, si era sentito distintamente un colpo di rivoltella e si era visto “cadere a terra un prete insanguinato”. Subito due guardie presenti in piazza si gettavano contro l’aggressore, che si stava dirigendo verso il Palazzo Ducale, e lo conducevano in questura per l’interrogatorio di rito.
Nel frattempo molti fra i passanti soccorrevano il povero ferito, che giaceva a terra “bocconi” perdendo abbondantemente sangue dalla nuca. A rialzarlo da terra era stato il commerciante Carlo Ghione; immediatamente dopo, “con rapidità fulminea”, giungevano due militi della Croce Verde che caricavano il ferito sulla barella per portarlo “di gran corsa all’ospedale”.
A Pammatone (dove attualmente è situato il Palazzo di Giustizia: siamo quindi sempre vicinissimo al luogo dove si è verificato l’agguato) “gli venne riscontrata una ferita d’arma da fuoco alla nuca, penetrante nel cervello, con echimosi1 alla palpebra destra, dove si crede siasi fermato il proiettile, e rimorragia2. Il suo stato fu subito riconosciuto gravissimo, in imminente pericolo di vita”.
Nonostante le gravissime condizioni, Don Paolo Canessa aveva avuto ancora la forza di parlare, sia pure con grande fatica: egli era riuscito ad affermare che non conosceva assolutamente chi l’aveva colpito e che non aveva mai avuto nemici.
Poco dopo il momento probabilmente più penoso e straziante dell’intera vicenda: dopo aver pregato l’infermiere che lo stava accudendo di avvisare immediatamente il fratello Celestino, capo contabile della Raffineria Ligure Lombarda(impresa dedita alla raffinazione degli zuccheri con sede a Genova, in Piazza della Zecca nell’ex Palazzo Centurione), Don Canessa rivolgeva un particolare pensiero a sua madre, singhiozzando, con le ultime forze prima che l’emorragia invadesse il cervello in modo irreparabile, così: “Povera mamma! Povera mamma!”. Si può ipotizzare che in questo momento egli abbia pensato anche al fatto che sua madre stava per perdere un altro figlio tre anni dopo Natale.
Tra l’altro, Don Paolo Canessa era stato colpito proprio mentre doveva andare a “colazione” (oggi probabilmente si direbbe pranzo) dalla “vecchia mamma ottantaquattrenne, in Via Santa Chiara 2”.
Rimanendo nella cerchia strettamente familiare, l’articolo parla anche dell’arrivo al capezzale del moribondo da parte del già citato fratello Celestino, “in quale stato può immaginarsi” (in questi termini si esprime l’articolista).
Attorno a Don Paolo Canessa “si affollavano commossi numerosi sacerdoti” che cercavano di mostrargli affetto ed aiuto; tra gli altri Don Maurillo Fossati, segretario di Monsignor Pulciano (allora arcivescovo di Genova), e Monsignor De Amicis, vicario generale della diocesi.
Vale davvero la pena citare il testo dell’articolo laddove riporta come aveva vissuto Don Canessa gli ultimi istanti prima del decesso: “Don Canessa ebbe allora un ultimo sentimento d’amore e con uno sforzo supremo pregò Don Fossati di ringraziare l’arcivescovo, invocando una speciale benedizione per la sua vecchia madre. La morte s’avvicinava rapidamente. Padre Angelo assistito dai sacerdoti presenti, i quali recitavano preci, impartì a Don Canessa l’estrema unzione”. Chissà, magari proprio nell’”ultimo sentimento d’amore” era maturata la volontà di perdonare l’assassino, cui fa cenno la lapide posta presso l’Abbazia di San Siro di Struppa.
Poi arrivava l’ora del trapasso: “Alle 13,10 il povero parroco spirava”. La salma veniva portata nella camera mortuaria dell’ospedale.
L’articolo continua soffermandosi non più sulla vittima, ma sull’autore del folle gesto. Anche in questo caso non mancano i particolari.
Sono innanzitutto descritte le generalità dell’assassino: si chiamava Gerolamo Rizzo fu Lorenzo, era nato a Genova nel novembre 1862, di professione maestro civico e residente in Piazzetta Romana (nella zona di Via San Vincenzo).
Si parla poi della condotta tenuta da Gerolamo Rizzo nel corso dell’interrogatorio cui era stato sottoposto nel corpo di guardia in questura: “si sedette in un angolo sopra una panca, cogli occhi stravolti, guardando, quasi con atto di minaccia, i suoi interlocutori”. Portato poi negli uffici del comandante della squadra mobile delegato De Stefanis, Rizzo continuava a dare segni di palese insofferenza: “rispose con altezzosità, dimostrandosi seccato delle varie domande che il solerte funzionario gli rivolgeva”.
Al di là del suo atteggiamento, dalle dichiarazioni rese nei confronti di De Stefanis riportate nell’articolo è possibile risalire alle assurde motivazioni addotte da Rizzo per spiegare il suo folle gesto: “Ho ucciso per vendicarmi. Sono una vittima della società, ed io sparando contro quel prete – che non conosco neppure di vista – intendevo di vendicarmi delle grandi ingiustizie umane patite dalla società cristiana. Il cristianesimo, invece di aiutarmi e rasserenarmi l’anima, ha contribuito ad aumentare l’incubo che da oltre quattro anni mi logora lo spirito. Io non so chi sia, è un prete, e tanto basta! Se non fossi riuscito nel colpo – aggiunse con grande enfasi – sarei pronto a ripeterlo perché la società deve essere purgata!”
Dopo avere pronunciato queste parole, Rizzo si chiudeva in un assoluto mutismo.
I funzionari della questura, “persuasi di avere a che fare con uno squilibrato”, inviavano alcuni medici a visitare l’assassino che, alla loro vista, “cominciò a smaniare e a gridare”.
Dopo averlo riportato alla calma, i medici “riconobbero subito che si trattava di individuo affetto da squilibro mentale: lo giudicarono un paranoico, affetto da mania di persecuzione”. Questa diagnosi veniva confermata dal dottor Mortola, vicedirettore del Manicomio di Quarto, nel corso di una successiva visita.
Dalla perquisizione a carico di Gerolamo Rizzo risultava che “oltre la rivoltella omicida caricata a cinque colpi, aveva in tasca altri cinque proiettili sciolti, un portafogli con lire duecento circa in biglietti di banca, due portamonete con degli spiccioli, catena ed orologio nonché delle chiavi e delle carte di nessun conto”.
Rizzo era infine condotto al carcere di Marassi, a disposizione dell’autorità giudiziaria.
L’ultima parte dell’articolo descrive alcune caratteristiche di Gerolamo Rizzo, anche dal punto di vista fisico: “magro, assai alto di statura, dal colorito un po’ acceso, con due baffettini neri impostati e ritorti a punto, nascondeva gli occhi un po’ stralunati dietro le lenti cerchiate d’oro. Erano sua caratteristica le ciocche di capelli che dall’accurata scriminatura scendevano dalla fronte, con frangie e tiracuori”.
Nel suo portamento c’era “un non so che di strano, di impacciato, di anormale. Spesso gesticolava e parlava tra sé. Vestiva un abito scuro, un po’ trascurato”.
A proposito invece delle sue abitudini, il maestro Girolamo Rizzo era solito passeggiare sotto i portici di via XX Settembre - il particolare è curioso e forse anche un po’ scabroso – “specialmente tra le 16 e le 18, all’ora delle belle signore, per cui il Rizzo, scapolo, aveva un’ammirazione quasi morbosa. Seguiva le donne con insistenza: qualche volta lo si vedeva al Verdi3 con contemplazione.”
Come si è detto in precedenza di professione Rizzo era maestro: lavoro indubbiamente delicato, probabilmente non consono ad una persona con evidenti problemi, per non dire disturbi, mentali; peraltro, secondo l’articolista “non risulta che alcun fatto potesse autorizzare i suoi superiori ad allontanarlo dall’insegnamento in cui la famiglia Rizzo si era sempre distinto e in cui stanno con plauso unanime due fratelli dell’uccisore di Don Canessa, il prof. Giuseppe e il prof. Federico”.
Gerolamo Rizzo aveva anche una sorella, che “trovasi da qualche tempo ricoverata al Manicomio”; particolare decisamente inquietante, alla luce di quanto avvenuto il 30 settembre 1908.
L’articolo si conclude così: “in piazza Umberto I, dove avvenne il fatto, per tutta la giornata stazionavano crocchi di persone che commentavano variamente il fatto”. Il particolare rende bene l’idea di quanto la cittadinanza fosse rimasta “straordinariamente impressionata” (queste le testuali parole usate dall’articolista nelle prime righe) dalla terribile vicenda, avvenuta nella centralissima Piazza Umberto I, che aveva visto coinvolti personaggi noti a molti genovesi, seppure per motivi diversissimi.
Tre giorni dopo, domenica 4 ottobre 1908, un altro articolo pubblicato su “Il Secolo XIX” trattava delle solenni esequie di don Paolo Canessa che si erano svolte il giorno precedente e più in particolare del suo ultimo viaggio dal centro città a San Siro di Struppa.
Si apprende che il corteo era partito alle 8,30 del mattino di sabato 3 ottobre dall’Acquasola; il carro funebre era di prima classe a due cavalli. Presiedevano i Padri Cappuccini, seguiti dai parroci della città. Dietro il carro i rappresentanti del Comune di San Siro di Struppa (allora autonomo da Genova), della famiglia (compreso il fratello Celestino), del clero, delle Congregazioni; erano presenti personalità ed esponenti di varie associazioni, quali la Federazione Cattolica Operaia, la Fabbriceria di San Siro di Struppa, la Società della gioventù cattolica italiana, la Federazione degli operai delle società cattoliche, le società di Pino e Torrazza, di San Giovanni Battista, di Santa Zita, il Circolo San Raffaele, la Congregazione di carità dell’Ospedale. Al seguito vi erano inoltre rappresentanze del Comitato parrocchiale di Nostra Signora della Consolazione, del Circolo San Michele di Montesignano e della società cattolica di San Francesco d’Albaro.
L’arcivescovo era rappresentato dal vice-cancelliere reverendo Lagomarsino e dal cerimoniere reverendo Dassori.
L’accompagnamento ufficiale terminava in piazza Manin dopo essere transitato per via Assarotti. Quindi le persone che seguivano il carro salivano nelle vetture e proseguivano per San Siro di Struppa, transitando per via Montaldo, via Bobbio, via Piacenza, il Follo (località oggi denominata “Giro del Fullo”); al passaggio del corteo “ogni parrocchia suonava a distesa in segno di lutto”.
Proprio al Follo si univano le Confraternite.
A questo punto, come descrive dettagliatamente l’articolo, il corteo, che proseguiva per la Doria, era così composto: “Stendardo di San Siro di Struppa, seguito dalle parrocchiane – Congregazione delle Figlie di Maria – Confraternita di San Luigi – Compagnia dell’oratorio di San Siro di Struppa – Confraternita di San Siro di Struppa col Cristo – Società operaia cattolica di San Gioacchino della Doria. Seguiva il carro funebre e una lunga fila di vetture”.
L’arrivo della salma a San Siro di Struppa è stato definito dall’articolo “commoventissimo”. Tutto sapeva di tristezza: “Dalla sede municipale e da moltissimi edifici privati pendevano bandiere abbrunate. Tutti i negozi erano chiusi per lutto”
Era arrivato finalmente il momento dell’ingresso di Don Canessa nella “sua” chiesa, che “era tutta parata a lutto. Su un magnifico catafalco, venne deposta la salma”.
L’articolista, prodigo di particolari nel descrivere il percorso e la composizione del corteo, non si dilunga invece molto sulla celebrazione eucaristica: si dice solamente che “la messa solenne venne celebrata dal parroco di San Martino di Struppa, circondato da tutto il clero.”
E’ possibile comunque avere qualche informazione su quello che era accaduto al termine: “Dopo le solenni esequie, il canonico Siccardi delle Vigne salì il pergamo e pronunziò un commovente elogio del povero sacerdote assassinato. Dopo la messa, la salma venne trasportata al Camposanto, dove dopo le rituali benedizioni pronunziò un elevato discorso l’assessore anziano signor Chiappe, che terminò il suo dire leggendo un affettuoso e commovente telegramma del Sindaco.
Alle 13 la indimenticabile cerimonia era finita”
Con quest’ultima breve proposizione si conclude l’articolo; dalla lettura di esso è possibile comprendere quanto forte sia stata l’emozione che ha suscitato l’assurdo episodio nella popolazione e quanto ampia sia stata la partecipazione.
Le bandiere abbrunate negli edifici pubblici e privati, la chiusura dei negozi, le campane delle varie parrocchie che suonavano a distesa al passaggio della salma, gli addobbi della chiesa dove si era svolto il funerale rendono molto bene il senso del lutto, del dolore, della tristezza e della commozione che aveva caratterizzato quella mattina di inizio autunno a San Siro di Struppa e in tutta la Val Bisagno. Sentimenti che, del tutto presumibilmente, si erano estesi fino al centro di Genova e quindi anche in quella Piazza Umberto I dove era avvenuto l’efferato omicidio.
1 echimosi: così nel testo.
2 rimorragia: così nel testo.
3 Il Teatro Verdi aveva sede in Via XX Settembre 39.
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Epitaffio sulla tomba di Don Paolo Canessa e del fratello Natale
PACE ALL’ANIMA DEL SACERDOTE
PAOLO CANESSA
ARCIPRETE DAL 23 FEBBRAIO 1896
AL 30 SETTEMBRE 1908
STRAPPATO IN QUEL GIORNO ALLA TERRA
LA PARROCCHIA LA FAMIGLIA TUTTI LO PIANSERO
IL FRATELLO NATALE
PREMORTO IL 16 OTTOBRE 1905
CON LUI ATTENDE LA BEATA RESURREZIONE
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Lapide interna nella Chiesa di San Siro di Struppa (sopra la quale c’è un busto)
PAOLO CANESSA
NOSTRO COMPIANTO PASTORE
INTEGERRIMO E ZELANTISSIMO
CHE IL 30 SETTEMBRE DEL 1908
FU UCCISO D’UN COLPO
A GENOVA IN PIAZZA UMBERTO I°
INCOGNITI L’UNO ALL’ALTRO
E L’OMICIDA E L’ESTINTO
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Lapide esterna presso la Chiesa di San Siro di Struppa
PAOLO CANESSA
ARCIPRETE
PER SANTE PAROLE E PIU’ PER SANTE OPERE VENERANDO
MURO’ QUEST’ASILO OVE COI RUDIMENTI DELLE LETTERE
SI EDUCA L’INFANZIA ALL’AMOR DI DIO E DEL PROSSIMO
VITTIMA INNOCENTE
DI MORTALE FERITA
DI GRAN CUORE PERDONO’
PERCHE’ DEL BENEMERITO SACERDOTE
FOSSE AI POSTERI RACCOMANDATA LA MEMORIA
IL COMITATO QUESTA LAPIDE POSE MCMIX
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Per saperne di più su Gerolamo Rizzo:
http://www.psychiatryonline.it/node/8460